IL PRETORE
    Alla  pubblica  udienza  del  23  febbraio  1993  ha pronunziato e
 pubblicato, mediante lettura del dispositivo, la seguente ordinanza.
    Letti gli atti del procedimento penale iscritto  al  n.  1585/e.g.
 mod. 22, instaurato nei confronti di Salamah Yousef, nato il 4 maggio
 1968 a Nazareth (Israele), irreperibile, osserva in
                            FATTO E DIRITTO
    Yousef  Salamah,  meglio  qualificato  in  epigrafe, veniva tratto
 dinanzi a questo giudicante, acche' si potesse vagliare la sua penale
 responsabilita'  in   ordine   alla   contravvenzione   di   sorpasso
 irregolare,  disciplinata dal combinato disposto dei commi settimo ed
 undicesimo dell'art. 106 del d.P.R. 15 giugno  1959,  n.  393.  Nella
 fase   degli  atti  introduttivi  del  dibattimento,  in  esito  alla
 dclaratoria  di  contumacia  del  Salamah,  rimasto   assente   senza
 l'allegazione  di causa di forza maggiore, di caso fortuito ovvero di
 altro  legittimo  impedimento,  la  difesa   dell'imputato   eccepiva
 l'illegittimita'   costituzionale  del  disposto  del  secondo  comma
 dell'art. 237 del d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285, laddove quest'ultima
 normativa consente la punizione, mediante l'irrogazione  di  sanzione
 penale,  delle  fattispecie  concrete,  commesse  in  epoca anteriore
 all'entrata in vigore del predetto d.P.R. n. 285/1992, gia'  previste
 come reati dal previgente ordinamento della circolazione stradale, di
 poi  depenalizzate  dal  testo  normativo  or  ora  richiamato.  Caso
 emblematico sarebbe quello inerente all'imputato Salamah,  cui  viene
 contestata la contravvenzione punita dal combinato disposto dei commi
 settimo  ed  undicesimo  dell'art.  106 del d.P.R. 15 giugno 1959, n.
 393, costituente fattispecie oggi  depenalizzata,  in  quanto  punita
 mediante  l'irrogazione  di  una  sanzione  amministrativa.  La norma
 transitoria dettata dal secondo comma dell'art.  237  del  d.lgs.  30
 aprile 1992, n. 285, nel far salvi, in relazione alle fattispecie ora
 depenalizzate,  ma commesse prima dell'entrata in vigore del testo di
 legge (1 gennaio 1993), l'applicazione  delle  sanzioni  gia'  a  suo
 tempo   previste  (anche  se  di  carattere  penale)  ed  i  modi  di
 accertamento delle trasgressioni e di applicazione delle  conseguenti
 sanzioni,  violerebbe, nella prospettazione della difesa del Salamah,
 il principio di eguaglianza,  si'  da  confliggere  con  il  disposto
 dell'art. 3 della Costituzione.
    Opina  questo  pretore  che  la  sollevata  eccezione  appaia  non
 manifestamente infondata.
    Nessun dubbio puo' nutrirsi in  merito  alla  considerazione  che,
 nella  fattispecie  in  disamina, ci si trovi di fronte ad una chiara
 ipotesi di abolitio criminis: per tale si intende il  fenomeno  della
 successione   di   leggi   penali   nel   tempo,  in  cui  una  legge
 incriminatrice viene abrogata ovvero, come nel caso de quo, in cui un
 illecito  penale  viene  depenalizzato  e  disciplinato come illecito
 amministrativo. La fattispecie trova la propria  generale  disciplina
 nel  dettato  del  primo capoverso dell'art. 2 del c.p., secondo cui:
 "Nessuno puo' essere punito per  un  fatto  che,  secondo  una  legge
 posteriore,  non  costituisce  reato;  e, se vi e' stata condanna, ne
 cessano  la  esecuzione  e  gli  effetti  penali".  Il  fenomeno   e'
 comunemente  designato  come  retroattivita'  della legge penale piu'
 favorevole (laddove, ben  inteso,  per  legge  piu'  favorevole  deve
 leggersi  legge abrogatrice di precedenti incriminazioni). Taluno, in
 dottrina,  ha  qualificato  il  fenomeno  in  disamina,   riferendosi
 all'effetto di elisione del giudicato penale, come iperretroattivita'
 della   norma   penale   piu'  favorevole  (rectius:  abrogatrice  di
 precedenti incriminazioni). Il principio, formalizzato dal  capoverso
 dell'art. 2 del c.p., vanta risalenti origini e trova giustificazione
 nel  fondamentale  rispetto del principio di eguaglianza: la norma in
 disamina, infatti, fornisce il necessario supporto  legislativo  alla
 mutata considerazione sociale di condotte gia' penalmente sanzionate:
 se   un   dato  comportamento  ovvero  una  serie  di  comportamenti,
 astrattamente sussumibili in una fattispecie tipizzata, non sono piu'
 considerati quali indici di pericolosita'  sociale  e  perdono,  alla
 stregua  della  considerazione che ne possiede la communis opinio, la
 connotazione disvaloriale, la  recezione  legislativa  del  mutamento
 valutativo  del  corpo  sociale,  che abroghi il divieto dei suddetti
 comportamenti e la conseguente sanzione penale, implica il venir meno
 di tutte le conseguenze legate anche alla  pregressa  irrogazione  di
 sanzioni  penali  in relazione all'accertamento della responsabilita'
 in ordine alle fattispecie  incriminatrici  abrogate.  La  cessazione
 dell'efficacia   della  norma  incriminatrice  comporta,  cioe',  non
 soltanto l'assenza di irrogazione di pena  per  fatti,  astrattamente
 sussumibili  nella  fattispecie abrogata, commessi durante la vigenza
 della  stessa,  ma  non  ancora  sanzionati  all'epoca  dell'abolitio
 criminis,  ma,  addirittura,  il  venir  meno  dell'esecuzione  delle
 sanzioni   gia'   inflitte,   in   esito   all'apprezzamento    della
 responsabilita'  per  la commissione dei fatti surrichiamati, durante
 il  periodo  di  vigore  della  norma  incriminatrice  abrogata.   Il
 principio, si ripete, trova il proprio ubi consistam nell'ossequio in
 altro   fondamentale   principio,  quello  di  eguaglianza:  sarebbe,
 infatti, lesivo della eguale dignita' dei cittadini e del concetto di
 parita' di trattamento sottoporre a diversa disciplina  sanzionatoria
 fatti  storici  tutt'affatto  eguali,  fatta eccezione per la data di
 commissione (prima o dopo l'entrata in vigore della norma abrogatrice
 della precedente incriminazione). La disciplina dettata  dal  secondo
 comma  dell'art.  2  del  c.p. comporta l'adeguamento del trattamento
 sanzionatorio di determinate fattispecie concrete al  mutato  sentire
 dei consociati.
    Autorevole  dottrina riconosce, peraltro, la legittimita' di norme
 transitorie, le quali, nel regolamentare la fase di passaggio tra  un
 determinato  regime  ad  un  altro,  comportino  deroghe al principio
 surrichiamato; si riconosce, id est, che una norma di legge ordinaria
 possa  stabilire  che,  contrariamente  a  quanto  previsto  in   via
 generale,  dal  primo  capoverso  dell'art.  2  del  c.p., in caso di
 abolitio criminis, i fatti astrattamente sussumibili nella previgente
 fattispecie  incriminatrice, commessi durante il vigore della stessa,
 continuino ad essere puniti con le previgenti sanzioni  penali  anche
 in  epoca  successiva  all'abrogazione  della  fattispecie  suddetta.
 D'altro canto, si fa notare, dei vari postulati in cui si articola il
 principio di stretta legalita', recepiti e formalizzati  dall'art.  2
 del c.p., il legislatore costituente, per il tramite del disposto del
 secondo   comma   dell'art.   25   della   Costituzione,   ha  inteso
 costituzionalizzare soltanto quello dell'irretroattivita' della legge
 incriminatrice. Solo e soltanto tale  principio  gode,  pertanto,  di
 dignita'   sopraordinata,  nella  gerarchia  delle  fonti  normative,
 rispetto alle ulteriori articolazioni dell'art. 2 del c.p.  La  ratio
 delle deroghe legislative al principio sanzionato dal primo capoverso
 dell'art.  2 del c.p. si giustificano, secondo la precitata dottrina,
 alla  stregua  della  continuita'  sotanziale  di  illeciti:  purche'
 sussista  un  criterio  discriminatore  che  permetta  di considerare
 fondata la disparita'  trattamentale,  cioe',  sarebbe  legittima  la
 possibilita'  di  punire,  in epoca successiva all'abolitio criminis,
 mediante  l'irrogazione  della  previgente  sanzione  penale,   fatti
 commessi durante il vigore della stessa.
    Orbene,  nella  fattispecie  soggetta all'odierno vaglio di questo
 giudicante, si rinviene proprio un'ipotesi di norma derogatrice della
 disciplina di cui al primo capoverso dell'art. 2 del c.p.: si intende
 qui far riferimento al secondo comma  dell'art.  237  del  d.lgs.  30
 aprile  1992,  n. 285, secondo cui: "Per le violazioni commesse prima
 della data di cui al primo comma (1 gennaio 1993, n.d. e del presente
 provvedimento) continuano ad applicarsi  le  sanzioni  principali  ed
 accessorie  e  ad osservarsi le disposizioni concernenti le procedure
 di accertamento e di  applicazione,  rispettivamente  previste  dalle
 disposizioni  previgenti".  La  norma  in  esame,  avendo  valore  ed
 efficacia di legge  ordinaria,  costituisce  deroga  ineluttabile  al
 principio,  pure  formalizzato da norma avente pari forza e valore di
 legge ordinaria, di cui  al  capoverso  dell'art.  2  del  c.p  .  La
 disciplina  in  disamina,  occorre  aggiungere,  concerne soltanto le
 norme contenute nel capo V del d.lgs. n. 285/1992,  vale  a  dire  le
 norme  di  comportamento  degli  utenti  della  strada.  Molti  degli
 obblighi imposti da tale normativa  erano,  nel  sistema  previgente,
 puniti  mediante  l'irrogazione di sanzioni penali; nell'ambito della
 generale regolamentazione, entrata in  vigore  il  giorno  1  gennaio
 1993,  viceversa,  in  ossequio  all'esigenza di adeguare la reazione
 istituzionale alla mutata considerazione di  determinate  condotte  e
 della carica di disvalore delle stesse, nonche' al non conclamato, ma
 trasparente,  fine  di  effettuare  una deflazione del carico penale,
 molti degli obblighi di comportamento dell'utente della strada,  gia'
 penalmente   rilevanti,   sono  stati  inquadrati  nell'ambito  della
 categoria dell'illecito amministrativo. Tra essi anche la fattispecie
 di sorpasso irregolare, gia' disciplinata dall'art. 106,  settimo  ed
 undicesimo  comma del d.P.R. n. 393/1959, ora regolamentata dall'art.
 148, decimo e sedicesimo comma, del d.lgs. 30 aprile  1992,  n.  285.
 Che gli intenti del legislatore fossero quelli sopra enunziati appare
 evidente  sin  dalla lettura della normativa delegante, inerente alla
 questione de qua agitur: recita, infatti, il punto  dd)  dell'art.  2
 della  legge  13  giugno 1991, n. 190: "revisione del sistema vigente
 delle infrazioni amministrative e relative sanzioni e  previsione  di
 nuove   ipotesi   in   conseguenza   della   nuova  disciplina  della
 circolazione,  nonche'  di  misure  cautelari  a garanzia del credito
 erariale per  le  predette  sanzioni,  stabilendo  l'ammontare  delle
 sanzioni  medesime  nei  limiti di lire trentamila per il minimo e di
 lire  quattro  milioni  per  il  massimo;  previsione   anche   della
 possibilita'  di sanzioni amministrative accessorie consistenti nella
 sospensione o revoca della patente di guida in  rapporto  alla  somma
 progressiva  delle  diverse  violazioni".  Inoltre,  il punto gg) del
 prefato art. 2 della legge n.  190/1991  recita:  "previsione,  nelle
 ipotesi  piu'  gravi  di  comportamento,  da  cui  derivi  pericolo o
 pregiudizio per la circolazione e  per  la  sicurezza  individuale  e
 collettiva,  di nuovi reati e modifica delle sanzioni penali vigenti,
 purche' non superino nel massimo per le pene detentive i mesi  dodici
 e per le pene pecuniarie la somma di lire due milioni".
    Donde  e'  dato  desumere  che  il  fine  prefisso  al legislatore
 delegato  era  quello  di  una   generale   revisione   dell'impianto
 sanzionatorio   previgente,   nel   tentativo  di  adeguamento  della
 normativa alle mutate considerazioni sociali e nel doveroso  ossequio
 ai  principi di proporzionalita', di sussidiarieta' e di solidarieta'
 che, comunque, il legislatore deve osservare nella  scelta  circa  la
 qualificazione  giuridica  (illeciti  penali  ovvero amministrativi o
 civili) dei comportamenti umani. Dunque, nella materia de qua, ove si
 sia verificata una depenalizzazione, la  quale  abbia  condotto  alla
 qualificazione  come  illecito  amministrativo  del tipo legale, gia'
 previsto come illecito penale, si e' in presenza  del  fenomeno  gia'
 individuato  da  perspicua  ed  autorevole dottriva quale continuita'
 sostanziale  dell'illecito  ovvero  perpetuazione   della   rilevanza
 dell'illecito.   La   predetta  dottrina,  peraltro,  individua  come
 incongrua, in tali ipotesi, non tanto  la  decisione  legislativa  di
 perpetuare  il  sanzionamento  purchessia  della  fattispecie, bensi'
 quella  di  perpetuare,   nella   vigente   della   nuova   normativa
 depenalizzante,  la  punizione  dei  fatti  commessi nel vigore della
 legislazione antevigente mediante l'irrogazione delle sanzioni penali
 in allora previste. Da cio' e' dato desumere che ben raramente,  gia'
 sul  piano  teorico,  e'  difficile  rinvenire, in ipotesi analoghe a
 quelle in odierna  disamina,  il  criterio  fondante  del  discrimine
 trattamentale tra soggetti rei della stessa fattispecie, diversamente
 qualificata a seconda del tempus commissi delicti (rectius: del tempo
 di   commissione   dell'illecito).  Oltre  tutto,  nella  fattispecie
 concreta, non si ravvisa davvero la ratio del  mantenimento  in  vita
 del  previgente  sistema  sanzionatorio:  si  consideri,  infatti, la
 circostanza  che  la  disciplina  del  sorpasso  irregolare,  siccome
 prospettata dal comma decimo dell'art. 148 del d.lgs. 30 aprile 1992,
 n.  285,  appare  tutt'affatto  identica, nella delineazione del tipo
 legale, a quella di cui al settimo comma dell'art. 106 del d.P.R.  15
 giugno 1959, n. 393, fatta salva l'enucleazione dell'ipotesi relativa
 al   divieto   di   sorpasso   per  i  conducenti  di  autotreni,  di
 autoarticolati  e  di  autosnodati,  la   quale   costituisce,   ora,
 fattispecie   autonomamente   regolata   dal   quattordicesimo  comma
 dell'art. 148 del d.lgs. n. 285/1992:  si  consideri,  comunque,  che
 anche   tale  ultima  ipotesi  costituisce  illecito  amministrativo,
 rientrando,  pertanto,  nel  disegno  di  depenalizzazione.   Dunque,
 l'operatore  del  diritto  si trova dinanzi ad un'evidente disparita'
 trattamentale, assolutamente ingiustificata alla stregua dell'assenza
 di  qualsivoglia  criterio  che,  in   ossequio   al   principio   di
 ragionevolezza,   fondi   la  discriminazione  stessa:  si  rammenti,
 infatti, che se e' vero che ad analoga situazione corrisponde analogo
 trattamento  legislativo,  e',  altresi',  vero  che   a   situazioni
 differenti  corrisponde (e non potrebbe essere altrimenti) differente
 trattamento. Per le ragioni suesposte, peraltro, nella fattispecie in
 disamina si rinvengono soltanto situazioni tutt'affatto analoghe, ove
 non  addirittura  identiche,  differenziate  soltanto  dall'epoca  di
 commissione  dell'illecito. E' d'obbligo, pertanto, concludere che il
 plesso normativo in disamina, costituito dal disposto combinato degli
 artt. 106, settimo ed undicesimo comma, del d.P.R. 15 giugno 1959, n.
 393, 148, decimo e sedicesimo comma, e 237, secondo comma, del d.lgs.
 30 aprile 1992, n. 285, confligge con  il  principio  di  eguaglianza
 sostanziale  di  cui al secondo comma dell'art. 3 della Costituzione,
 laddove   consente,   pur   in   epoca   posteriore   all'intervenuta
 depenalizzazione  delle  fattispecie  disciplinate, che fatti storici
 commessi nella  vigenza  della  normativa  antecedente  siano  ancora
 puniti mediante l'irrogazione della sanzione penale.
    Ci  si  rende  perfettamente  conto  che un'eventuale accoglimento
 dell'eccezione di illegittimita' condurrebbe  ad  una  situazione  di
 vuoto  normativo,  la  quale  non  garantirebbe  adeguatamente quella
 perpetuazione della rilevanza dell'illecito, di cui  poc'anzi  si  e'
 detto:  dati,  infati,  i  principi  generali  vigenti  in materia di
 sanzioni amministrative ed,  in  particolare,  stanze  la  disciplina
 dettata  dall'art.  1  della  legge  24  novembre  1981,  n. 689, non
 potrebbe trovare applicazione retroattiva la sanzione  amministrativa
 in  relazione  a  fatti  commessi anteriormente all'entrata in vigore
 della legge che tale ultimo tipo di sanzione  prevede.  Cio'  stante,
 peraltro, non ci si puo' esimere dal dovere di esternazione dei dubbi
 di  legittimita'  costituzionale della norma della quale si dovrebbe,
 nella fattispecie, fare applicazione: considerazioni di  opportunita'
 politico-legislativa  non possono indurre a diverse valutazioni circa
 la conformita' a  Costituzione  della  normativa  ordinaria.  Neppure
 pretende,   questo   giudicante,   che   la   Corte   costituzionale,
 nell'adempimento del proprio compito di valutazione della conformita'
 costituzionale della normativa ordinaria, introduca, per  la  via  di
 una pronunzia di accoglimento dell'eccezione sollevata, una soluzione
 normativa  consimile  a  quella  dettata  dell'art. 40 della legge 24
 novembre 1981, n. 689: e'  ben  consapevole  questo  pretore  che  la
 Corte,  nel  corretto  esercizio  dei  criteri di self restraint, non
 potrebbe addivenire ad una soluzione della questione prospettata  che
 si  appalesi  additiva  di  nuove ipotesi normative, compito, questo,
 spettante al solo legislatore. Peraltro, come gia' detto, la rilevata
 non manifesta infondatezza della non consentaneita' alla Costituzione
 del  dettato  normativo  ordinario  in  esame  non  puo'  indurre   a
 considerazioni ulteriori: d'altro canto, nell'ipotesi di accoglimento
 della  sollevata  eccezione  sara'  lo  stesso  legislatore  che, nel
 sovrano    esercizio    dei    poteri    assegnatigli     nell'ambito
 dell'ordinamento  istituzionale,  provvedera' a colmare, magari anche
 in via d'urgenza, come sempre piu' di  frequente  avviene,  eventuali
 lacune dell'ordinamento giuridico.
    Cio'  detto  in  relazione  alla  non manifesta infondatezza della
 dedotta  questione,  non  ci  si  soffermera'  piu'  del  dovuto  per
 sottolineare  la  rilevanza della stessa nell'ambito del procedimento
 penale soggetto all'odierno vaglio diquesto giudicante: si  consideri
 soltanto,  a  tal  proposito,  che  laddove  la noramtiva in disamina
 dovesse essere ritenuta effettivamente confliggente con  il  disposto
 costituzionale  segnalato,  questo  pretore  avrebbe,  ai  sensi  del
 dettato  dell'art.  129  del  c.p.p.,   l'obbligo   di   un'immediata
 declaratoria  di  non  punibilita'  per non essere il fatto preveduto
 come reato.